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martedì 8 settembre 2015

GOLFO DI ORISTANO



Racchiuso tra Capo Frasca e Capo S. Marco, troviamo il Golfo di Oristano, dove plausibilmente, come sembrano accennare antiche fonti, sorgeva un tempio del dio eponimo più venerato dai nuragici. Ossia di quelle divinità, assimilata anche dai cartaginesi con la denominazione di "Sid Babai" , ed in seguito anche dai romani che lo chiamarono "Sardus Pater" coniandone, per di più una moneta con l'effige di questa divinità sarda.
Essa ebbe anche un imponente tempio ad Antas, in un territorio dove ai tempi della dominazione romana, sorgeva il centro minerario di Metalla.Ma torniamo sulla costa dove si apre l'ampia insenatura auricolare conclusa alle estremità dai già citati Capo Frasca e Capo San Marco. Su questo litorale sorse e prosperò l'importane città punica di "Tharros", poi divenuta romana ed infine, a causa delle incursioni barbaresche e saracene, abbandonata dagli abitanti, che, rifugiatisi all'interno, fondarono Oristano ed altri centri minori.
Allontanandosi dal mare scelsero le nuove sedi non solo lontano dalle rive insidiate, ma le andarono a cercare al di là dei vasti stagni costieri per frapporre con questi uno schermo invalicabile contro le orde della marmaglia musulmana. Per di più in quell'esodo forzato i tharrensi, trasmigrando dalla propria città, trasferirono altrove tutto ciò che poteva essere esportato o trasportato. Una preziosa testimonianza la troviamo nella chiesa di  S. Giusta: esattamente nella doppia fila  di colonne dell'interno, che provengono appunto da Tharros. Ma tale trasferimento massiccio e ben giustificato lo rammenta anche un distico popolare oristanese: " De sa zittadi 'e Tharros / portant sa perda a carros"
L'antica città comunque è stata dissepolta da una campagna di scavi, che ha rimesso in luce un vasto e solenne tempio punico, un impianto termale, alcuni quartieri con le relative strade lastricate e fornite di impianti fognari, un deposito d'acqua, un battistero paleocristiano, le canalizzazioni di un acquedotto ed un recinto sull'acropoli disseminato di urnette, attestanti anche qui il macabro rito semita del molk. Nel suo insieme la vasta e complessa pianta di Tharros, che l'opera degli archeologi ha riportato alla luce, attesta chiaramente la preminenza e l'ampiezza di questa città punico-romana, per quanto una buona parte di essa sia stata distrutta dai secoli e dagli eventi nefasti. Oltre che dal bradisismo, che ha fatto sprofondare ed ha sommerso i quartieri prossimi al mare. Persino una delle due necropoli, che oggi emerge proprio sulla battigia ed è perciò raggiunta dalla risacca così che le onde si sciolgono e penetrano nei loculi funerari. La loro carezza liquida e spumeggiante può sembrare un postumo e perenne omaggio a queste antiche tombe. E' comunque una patetica visione di Tharros alla quale abbiamo dedicato questi versi di una nostra lirica: "Dalla scogliera occhiuta / d'umide tombe / il mare non si scioglie: / s'allenta ma ritorna più gonfia dell'urna / per un colloquio teso: / parole d'acqua e gemiti di sasso / .
La benigna natura di tutta la riviera che sta alle spalle, ossia della vallata del Tirso, che le dà il nome e la percorre nell'ultimo tratto del suo corso dopo aver alimentato il grande bacino artificiale omonimo, e sbocca proprio nelle vicinanze di Oristano, ha sempre favorito la sua floridezza agricola e procurato un certo benessere agli abitanti del suo contado fin dall'epoca remota in cui i semiti scelsero, proprio per la sua natura propizia, questo litorale per fondarvi la colonia di Tharros. Ma tale felice condizione ha certo giovato anche in quell'età dei giudicati che segnò il primato di quello degli Arborea, specie per merito di Mariano e della sua celebre figlia Eleonora. Ai quali, oltre il riconoscimento per le loro gesta intrepide di condottieri, va attribuito anche il merito di aver concepito ed emanato per i loro sudditi uno dei codici più saggi ed illuminati della loro età.

Per tali illustri precedenti storici, ma anche per la prosperità di questo territorio, oggi ricco di culture pregiate comprese le risaie e benemerito produttore della vernaccia, uno dei più generosi e geniali vini italiani, alla patria dell'eroica giudicessa dei sardi è stato attribuito trent'anni fa il ruolo di capoluogo della IV provincia dell'isola. Ed Oristano, per celebrare forse inconsapevolmente l'antica e nobilissima vocazione agraria della propria gente, che costituisce certo uno dei suoi titoli maggiori, ogni anno tiene fede a una sua antica e pittoresca tradizione popolare. Di carnevale tutta la città, cosi possiamo dire, si mobilita per la migliore riuscita della "Sartilla" una sorta di palio durante il quale dei cavalieri mascherati debbono infilzare di corsa col proprio stocco una stella appesa a mezz'aria. Dal numero di colpi andati a segno la folla trae gli auspici per il futuro raccolto. Ciò dimostra che le radici primigenie di tale cimento equestre, sia pure arieggiante una gualdana medievale, sono in sostanza quelle contadine di una cerimonia propiziatoria.

La Sartilla pertanto riflette, a maggior conferma di questo suo recondito significato agrario, un estrema immagine, certo assai trafigurata rispetto alle rispettive espressioni, di quelle celebrazioni che hanno generato l'usanza del carnevale nei tempi più remoti: anche quello, certo denominato ed articolato assai diversamente, dei sumeri, degli egiziani, dei greci e dei romani. Ossia quel suo rituale che festeggiava il risveglio della natura preannunciato dalla primavera incipiente. Quella rinascita annuale generò fin dai tempèi più remoti la volgia di celebrare tale avvenimento con una manifestazione gioiosa, che fu la vera ed iniziale anticipatrice del carnevale di tutti i tempi: e dunque anche della Sartilla di Oristano.




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